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Divulgo il digitale a giornalisti, insegnanti, educatori, genitori e nel mondo cattolico

I ragazzi dedicano due ore al giorno all’informazione (ma non le credono)

La ricerca Generationship 2025 di Unipol traccia un ritratto delle nuove generazioni italiane che fa pensare: giovani tra i 16 e i 35 anni che dedicano quasi due ore al giorno all’informazione – più degli adulti – ma che alla qualità di questa informazione danno un voto medio di 5,6 su 10. Insufficiente.
Detta un po’ brutalmente dedicano tempo a qualcosa in cui non credono.

È un paradosso che attraversa l’intera ricerca. Mai così tanta informazione disponibile, mai così tanta sfiducia nella sua qualità e indipendenza.

C’è una differenza fondamentale tra come si informano i giovani e come lo facevano i loro genitori. Non è solo una questione di smartphone contro giornali di carta. È proprio il meccanismo che è cambiato. Il 53% dei ragazzi tra i 16 e i 35 anni non cerca attivamente le notizie: le subisce. Viene esposto a un flusso continuo di informazioni che arriva dai social, dalle notifiche, dalle chat. Gli adulti, invece, per il 70% vanno ancora a cercare quello che vogliono sapere.

Eppure, e qui sta l’altra faccia del paradosso, quando i giovani vogliono approfondire una notizia – e l’86% lo fa almeno qualche volta – sanno esattamente dove andare. Il 79% usa Google per trovare una fonte attendibile. I social media? Solo il 4% li considera affidabili per verificare un’informazione. In altre parole: Instagram va bene per scoprire che è successo qualcosa, ma se vuoi capire cosa è successo davvero, devi andare altrove.

La dieta informativa dei giovani racconta molto di semplici preferenze. Il 60% si informa su cinema e serie tv, il 59% su viaggi, cucina e moda. La politica italiana? Solo il 40%, e con minore attenzione.

La ricerca mostra che il 66% si informa comunque per “essere aggiornato su cosa succede nel mondo”. Ma questo mondo ha tre orizzonti: il personale (identità e passioni), il vicino (quotidianità e comunità locale) e il lontano (cittadinanza globale). Tre livelli che devono trovare un equilibrio costante, dove l’attualità diventa rilevante soprattutto quando e se interseca la vita quotidiana.

Il dato più inquietante riguarda i deep fake. Solo il 16% dei giovani sa davvero cosa sono i deep fake: contenuti generati dall’intelligenza artificiale per manipolare la realtà. Gli altri, pur avendo sentito il termine, lo confondono con una notizia genericamente molto falsa. Eppure il 68% li considera preoccupanti.

È come avere paura di qualcosa di cui non si conoscono i contorni esatti. E questo, per una generazione cresciuta con lo smartphone in mano, è un po’ paradossale. Nativi digitali che non sono attrezzati per riconoscere i rischi del digitale. Sanno usare TikTok, ma non sanno cosa sia una camera dell’eco. Passano ore su Instagram, ma solo il 20% ha chiaro il concetto di bolla informativa.

Siamo al solito punto. Essere nati con la tecnologia non significa capirla. È come essere nati in una città e pensare di conoscerne tutte le strade, compresi i vicoli bui. Serve una mappa, serve educazione. E la ricerca lo dice chiaramente: c’è un’urgente necessità di alfabetizzazione informativa.

Quando si parla di fiducia, però, i giovani dimostrano una buona lucidità. Nell’oceano caotico dell’informazione digitale, i criteri che usano per scegliere una fonte sono incredibilmente tradizionali: affidabilità, accuratezza, competenza, indipendenza. Il 75% considera fondamentale che una fonte sia autorevole e pubblichi notizie verificate. La viralità? I tanti follower? Solo il 47% li considera rilevanti.

È come se, sotto la superficie frenetica dei social media, esistesse ancora un nucleo di buon senso giornalistico. I giovani vogliono quello che volevano i loro nonni: la verità, raccontata bene, da persone competenti e indipendenti. Il problema è che percepiscono un sistema informativo sempre più lontano da questi valori, schiacciato tra clickbait, condizionamenti politici ed economici, e la caccia ossessiva all’engagement.

Chi ritiene la situazione peggiorata negli ultimi dieci anni – ed è la maggioranza – cita proprio questi elementi: i condizionamenti politici ed economici (33% dei giovani, 42% degli adulti) e il calo generale della qualità, con troppe fake news e troppo sensazionalismo.

E così arriviamo al punto: una generazione che dedica quasi due ore al giorno all’informazione, ma che alla domanda “ti fidi?” risponde con un voto insufficiente. Che usa i social per scoprire le notizie ma non si fida dei social per approfondirle. Che vuole essere informata ma spesso evita di seguire le notizie per non sentirsi sopraffatta – il 45% lo ammette.

Il 48% dei giovani si sente sfinito dalla quantità di notizie. Il 39% prova ansia per la necessità di essere sempre aggiornato. Non è solo stanchezza digitale: è un malessere più profondo, la sensazione di vivere in un sistema informativo rotto, dove più informazione non significa più conoscenza, e dove l’accesso illimitato alle fonti convive con una sfiducia crescente.

C’è un ultimo elemento che emerge dalla ricerca: il fenomeno del brand journalism, cioè le imprese che producono contenuti informativi. Il 52% dei giovani ne è al corrente, contro solo il 37% degli adulti. La valutazione è prevalentemente positiva ma cauta. Non c’è un rigetto a priori, ma la fiducia è subordinata a condizioni stringenti: trasparenza assoluta, coinvolgimento di esperti indipendenti, imparzialità totale. Altrimenti viene percepito come pubblicità mascherata.

Anche qui, criteri tradizionali. Anche qui, richiesta di onestà. Forse è questo il messaggio più forte che arriva da queste 1.500 interviste: i giovani non hanno abbandonato l’idea di un’informazione di qualità. Semplicemente, non la trovano più dove si aspettavano di trovarla. E continuano a cercarla, stanchi ma testardi, in un ecosistema che sembra fatto apposta per confonderli.

PS. I grafici di questo articolo sono stati realizzati grazie all’intelligenza artificiale