«Nel nostro paese non c’è un problema di libertà di stampa». L’ha scritto qualche giorno fa sul suo profilo social un giornalista che stimo. Nel suo lungo post non c’era alcun dato né profondità, solo il tentativo di dimostrare che l’attuale governo non sta limitando la libertà di stampa. Così, però, si rende un cattivo servizio al giornalismo, ai lettori e alla libertà di stampa, che è una cosa molto più seria di un dibattito social. E soprattutto è molto più grande dei confini dell’Italia.
Per migliaia di giornalisti nel mondo fare informazione significa rischiare, e molto. Alcuni vengono uccisi, altri imprigionati, altri ancora sequestrati, e i loro corpi non vengono più trovati. Poi ci sono le minacce personali e ai familiari dei giornalisti. Ci sono le pressioni e le querele bavaglio. Per non parlare dell’autocensura, sempre più diffusa in molte redazioni e in molti giornali.
Cosa intendiamo quando parliamo di «libertà di stampa»
Per comprendere appieno questo fenomeno, dobbiamo prima chiarire cosa intendiamo quando parliamo di “libertà di stampa”. Non si tratta semplicemente dell’assenza di censura. È un concetto più articolato che comprende tre dimensioni interconnesse ma distinte. La prima è l’indipendenza vera e propria: quanto i media possono operare senza subire interferenze, pressioni o violenze da parte di governi, poteri economici o gruppi criminali. La seconda dimensione è il pluralismo mediatico, ovvero la varietà di voci, proprietà e prospettive disponibili nel panorama informativo di un paese. La terza riguarda la sicurezza fisica, digitale e legale di chi fa informazione. Un ecosistema mediatico sano richiede che tutte e tre queste componenti siano solide. Un paese può avere formalmente libertà di espressione nella sua Costituzione, ma se i giornalisti vengono sistematicamente minacciati o se tutti i media appartengono a un ristretto gruppo di oligarchi, quella libertà rimane solo sulla carta.

Quei 1.790 giornalisti uccisi
Dal 1993 a oggi, oltre 1.790 operatori dell’informazione sono stati uccisi nel mondo. Il 2024 si è rivelato uno degli anni più letali della storia recente, con almeno 78 giornalisti uccisi. Quasi il 70% di queste morti è avvenuto nel contesto del conflitto israelo-palestinese esploso a Gaza dopo l’attacco di Hamas.
A rendere i conteggi ancora più complicati, non solo nel caso di Gaza, ci sono diversi fattori. Tra questi il fatto che in molti paesi e in molti teatri di guerra è diventato estremamente difficile avere conferma certa degli omicidi di giornalisti.
C’è un altro dato che rende grave questa situazione: la cosiddetta impunità sistemica. Circa nove omicidi su dieci di giornalisti rimangono impuniti, senza che i colpevoli vengano mai perseguiti. Quando chi uccide un reporter sa che molto probabilmente non subirà conseguenze, il messaggio è chiaro: uccidere un giornalista è un crimine che paga. L’UNESCO e le Nazioni Unite denunciano questa situazione da anni come inaccettabile, esortando gli Stati ad adottare misure efficaci, ma i progressi restano drammaticamente insufficienti.
Se gli omicidi rappresentano la forma più estrema di repressione, la detenzione è diventata lo strumento preferito dai regimi autoritari per silenziare il dissenso. E anche qui i numeri raccontano una storia inquietante. Secondo il rapporto del 2025 di Reporter Senza Frontiere (RSF), ci sono 567 giornalisti e operatori dei media imprigionati nel mondo. La Cina ha il maggior numero di persone detenute, seguita da Birmania (Myanmar), Russia, Iran e Bielorussia.

Le minacce invisibili
Non tutti gli attacchi alla libertà di stampa sono così eclatanti come un omicidio o un arresto. Esiste un intero arsenale di minacce “non letali” che sta diventando sempre più pervasivo e sofisticato. Aggressioni fisiche, intimidazioni verbali, campagne di odio orchestrate sui social media: tutti strumenti che creano un clima di paura senza necessariamente versare sangue.
La tecnologia ha aggiunto nuove dimensioni preoccupanti a questa repressione. Lo spyware Pegasus, un software di sorveglianza estremamente invasivo, è stato utilizzato illegalmente per spiare almeno 180 giornalisti in tutto il mondo.
Un’altra arma sempre più utilizzata è quella giudiziaria. Le cosiddette SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation, cause temerarie contro la partecipazione pubblica) sono azioni legali pretestuose, querele per diffamazione o cause civili promosse non con la reale intenzione di ottenere giustizia, ma con l’obiettivo di intimidire, rovinare economicamente e far tacere i giornalisti scomodi. Con il risultato che molti giornalisti, anche in paesi democratici, ammettono di praticare forme di autocensura per timore di ritorsioni economiche o giudiziarie. Evitano certi argomenti, moderano i toni, rinunciano a pubblicare inchieste scottanti non perché qualcuno glielo abbia esplicitamente ordinato, ma perché hanno calcolato che il prezzo personale sarebbe troppo alto. È una forma di censura perfetta perché non richiede interventi esterni: il giornalista stesso diventa il proprio censore. Per non parlare delle sempre maggiori pressioni da parte degli uffici marketing e pubblicità dei giornali verso i giornalisti per “trattare bene” gli investitori.
Le querele temerarie o SLAPP
L’Unione Europea, da parte sua, ha compiuto passi significativi nel 2024, adottando una direttiva anti-SLAPP per contrastare le querele temerarie e raggiungendo un accordo preliminare sull’European Media Freedom Act, il primo regolamento continentale a tutela dell’indipendenza editoriale e del pluralismo dei media. Peccato che, come tutte le direttive europee, sia sì «un atto giuridico che stabilisce un obiettivo che i paesi dell’UE devono conseguire» ma spetta «ai singoli paesi definire attraverso disposizioni nazionali come conseguirlo». Risultato: tutti i maggiori paesi europei, Italia compresa, non hanno ancora applicato la direttiva.
Le querele temerarie, o SLAPP, costituiscono quasi un terzo di tutte le ritorsioni contro i cronisti italiani. Colpiscono soprattutto freelance e reporter locali, che sono meno tutelati sul piano legale ed economico rispetto ai colleghi di grandi testate. Il meccanismo è tanto semplice quanto efficace: un politico, un imprenditore o un personaggio pubblico citato in un’inchiesta giornalistica promuove una querela per diffamazione o una causa civile per danni, anche quando sa che è infondata.
Ecco il punto cruciale: nel novanta per cento dei casi le cause per diffamazione contro giornalisti in Italia si concludono con un’archiviazione o un’assoluzione. Ma questa risoluzione arriva solo dopo anni di procedimenti costosi, durante i quali il giornalista deve pagare avvocati, comparire in tribunale, vivere nell’incertezza. Intanto chi ha promosso la querela generalmente non subisce alcuna conseguenza, riuscendo di fatto a “dare uno schiaffo” all’informazione scomoda senza pagare alcun prezzo.
L’effetto intimidatorio è devastante. Molti giornalisti ammettono di aver moderato toni, evitato certi argomenti o rinunciato a pubblicare inchieste per non rischiare querele e spese legali insostenibili. L’Italia al momento non ha ancora una legge anti-SLAPP (è in discussione in Parlamento per recepire la direttiva europea), quindi questo tipo di abusi legali continua sostanzialmente indisturbato.
La “cattura” dei mass media
C’è un’ulteriore minaccia che opera a un livello più strutturale: la perdita di pluralismo mediatico attraverso il fenomeno noto come “media capture”, letteralmente la cattura dei media. In diversi contesti, governi autoritari o oligarchi locali stanno acquisendo il controllo dei mezzi di informazione, minando l’indipendenza editoriale e riducendo la diversità di voci disponibili al pubblico
Questo non accade solo in fragili democrazie emergenti, ma anche in alcuni paesi dell’Unione Europea. L’esempio più eclatante è l’Ungheria, dove un unico consorzio filogovernativo chiamato KESMA ha accentrato centinaia di testate, creando di fatto un impero mediatico allineato al potere di Viktor Orbán. In Francia destano allarme le acquisizioni di giornali e televisioni nazionali da parte di magnati come Vincent Bolloré, che sta costruendo un’influenza mediatica senza precedenti.
Il risultato di queste dinamiche è una stampa meno libera anche quando formalmente non esiste censura. I giornalisti subiscono pressioni editoriali sottili ma efficaci, le redazioni si omologano, il pubblico viene esposto a un’informazione meno pluralista e più polarizzata. La concentrazione proprietaria in mani di pochi crea una situazione in cui l’apparente varietà dei media nasconde in realtà un monopolio delle prospettive.
Le nuove sfide all’orizzonte
Guardando al futuro, emergono nuove minacce che renderanno ancora più complessa la difesa della libertà di stampa. I conflitti armati continuano a esporre i cronisti a rischi estremi.
L’Intelligenza Artificiale dal canto suo sta potenziando gli strumenti di disinformazione in modi prima inimmaginabili. I deepfake, video o audio falsi ma incredibilmente realistici, possono essere utilizzati per screditare giornalisti, creare false testimonianze o confondere l’opinione pubblica su larga scala. Campagne diffamatorie automatizzate, gestite da bot e algoritmi, possono colpire la reputazione dei media in modo massiccio e velocissimo.
Un altro fattore di vulnerabilità è la crisi economica strutturale del settore dell’informazione. Testate locali e giornali tradizionali soffrono cali di entrate e chiusure in tutto il mondo occidentale. Negli Stati Uniti, circa un terzo dei quotidiani attivi nel 2005 ha cessato le pubblicazioni, indebolendo drammaticamente la capacità di controllo democratico sul potere a livello locale. Quando i giornali locali chiudono, intere comunità perdono la loro “sentinella civica”, lasciando campo libero a corruzione e abusi.
L’importanza del giornalismo locale
Nel dibattito sulla libertà di stampa, spesso l’attenzione si concentra sui grandi media nazionali e sui giornalisti famosi. Ma una delle perdite più gravi e meno visibili è il declino del giornalismo locale. Quando un quotidiano provinciale chiude o riduce drasticamente la redazione, quando una radio locale viene acquisita da una catena nazionale, quando i cronisti che conoscevano il territorio da decenni vanno in pensione senza essere sostituiti, intere comunità perdono la loro capacità di controllo democratico sul potere locale.
È proprio a livello locale che avvengono molti degli abusi che hanno l’impatto più diretto sulla vita delle persone: un appalto truccato nel comune, una discarica abusiva che inquina le falde acquifere, un’opera pubblica inutile ma redditizia per certi interessi, un politico locale corrotto. Senza giornalisti che conoscono il territorio e hanno il tempo e le risorse per investigare, questi abusi restano nell’ombra.
Il giornalismo locale è anche quello più esposto alle intimidazioni. Un cronista che lavora in una grande città per una testata nazionale ha più protezioni – legali, sindacali, economiche – di un freelance che segue la cronaca nera in una provincia dominata da clan mafiosi. È più facile intimidire, querelare o corrompere un giornalista isolato che un reporter parte di una grande redazione.
Proteggere e rivitalizzare il giornalismo locale dovrebbe essere una priorità per chiunque abbia a cuore la libertà di stampa e la salute democratica dei territori. Questo significa anche riconoscere che non tutto il giornalismo di valore si fa nelle capitali o nelle grandi città, e che i cronisti che raccontano le periferie geografiche e sociali svolgono una funzione insostituibile.

Il caso Italia
Veniamo ora al caso italiano, che merita un’analisi approfondita perché rappresenta un esempio significativo di come anche in una democrazia consolidata la libertà di stampa possa essere sotto pressione costante.
La performance dell’Italia negli indici internazionali racconta una storia di progressi e arretramenti. Nel 2015 il nostro paese crollò al 73° posto su 180 nel World Press Freedom Index di Reporter Senza Frontiere, penalizzato da minacce mafiose e cause intimidatorie contro giornalisti. Successivi miglioramenti hanno portato l’Italia fino al 41° posto nel 2023, ma nel 2024 c’è stata una nuova discesa al 46° posto. Gli indici collocano l’Italia in zona “gialla”, ovvero con problemi notevoli anche se non gravissimi. Freedom House la classifica come paese libero, ma segnala persistenti pressioni politiche sui media e conflitti di interesse irrisolti nel sistema mediatico.
Questo andamento altalenante ci dice qualcosa di importante: l’Italia non è un paese dove la libertà di stampa è in pericolo imminente, ma nemmeno uno dove questa libertà può essere data per scontata. È una situazione intermedia, precaria, dove i progressi possono essere facilmente vanificati se l’attenzione si allenta.
Una specificità italiana che pesa enormemente sulla libertà di stampa è la presenza del crimine organizzato. Circa venti cronisti vivono oggi sotto scorta armata permanente a causa di gravi intimidazioni provenienti da clan mafiosi o gruppi estremisti. Le regioni più colpite sono Lazio, Campania e Sicilia.
Il fenomeno delle minacce ai giornalisti in Italia non è in diminuzione, anzi. Nel solo 2024 sono stati documentati 516 nuovi episodi intimidatori, più di uno al giorno, contro operatori dell’informazione nel paese. Dal 2006 al 2024, Ossigeno per l’Informazione ha rilevato complessivamente 7.550 casi di attacchi, una media di 478 l’anno.
Analizzando la natura di questi attacchi emerge un quadro articolato. Il 41% erano avvertimenti: minacce verbali, messaggi minatori, il classico proiettile recapitato in busta, intimidazioni esplicite. Il 14% aggressioni fisiche. Il 4% riguardava danneggiamenti a cose: auto incendiate, redazioni vandalizzate, atti dimostrativi di violenza. Un ulteriore 4% consisteva in ostacoli all’accesso a informazioni pubbliche, una forma più sottile ma non meno efficace di impedire il lavoro giornalistico.
Ma il dato più significativo è un altro: ben il 37% di tutti gli attacchi rientra nelle ritorsioni legali pretestuose, ovvero querele penali per diffamazione o citazioni civili temerarie mirate a intimidire.
Sebbene dagli anni Novanta non si verifichino omicidi mirati di giornalisti sul suolo italiano, sarebbe profondamente sbagliato pensare che il pericolo sia scomparso. Le minacce estreme continuano a colpire chi fa informazione coraggiosa.
Paolo Borrometi, giornalista antimafia siciliano, è stato vittima nel 2018 di un complotto per assassinarlo. Il piano fu sventato dalle forze dell’ordine, con vari esponenti mafiosi arrestati e poi condannati per l’organizzazione del piano omicida. Borrometi continua a vivere sotto scorta, pagando sulla propria pelle il prezzo delle sue inchieste sui clan di Catania.
Federica Angeli, cronista di Repubblica che si occupa di cronaca nera romana, dal 2013 vive sotto scorta dopo aver denunciato i clan di Ostia. I boss del clan Spada sono stati condannati per le gravi minacce rivoltele, ma questo non ha restituito a Federica una vita normale. Anche lei continua a essere accompagnata costantemente da agenti di polizia.
Andrea Rocchelli, fotoreporter italiano, fu ucciso nel 2014 nel conflitto in Ucraina orientale. Per la sua morte un soldato ucraino fu inizialmente condannato in Italia, poi assolto in appello per insufficienza di prove, lasciando il delitto sostanzialmente impunito.
Nell’ottobre 2025 una bomba ha distrutto l’auto di Sigfrido Ranucci, conduttore del programma di inchieste Report della RAI, che era parcheggiata sotto casa del giornalista.
Perché riguarda tutti
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché io che non sono un giornalista dovrei preoccuparmi della libertà di stampa? La prima risposta è che senza un giornalismo libero e indipendente, la democrazia non può funzionare. Quando i reporter vengono uccisi, imprigionati, minacciati o ridotti al silenzio attraverso querele temerarie, non sono solo loro a perdere. Perdiamo tutti noi, come cittadini, la possibilità di sapere cosa fa chi ci governa, di scoprire la verità su scandali e corruzioni, di prendere decisioni informate su questioni che riguardano le nostre vite.
La libertà di stampa non è un lusso democratico o un interesse di categoria dei giornalisti. È un bene comune che appartiene a tutti noi, perché è attraverso un’informazione libera e plurale che possiamo esercitare i nostri diritti di cittadini, controllare chi detiene il potere e partecipare consapevolmente alla vita pubblica.
Cosa puoi fare, cosa possiamo fare
Di fronte a questo quadro complesso e preoccupante, è legittimo chiedersi quale ruolo possano avere i cittadini comuni. La risposta è che ciascuno di noi può contribuire a difendere la libertà di stampa in modi concreti.
Prima di tutto, possiamo essere consumatori critici e consapevoli di informazione. Questo significa sostenere il giornalismo di qualità, quello che richiede tempo, competenze e risorse per produrre inchieste approfondite. Significa essere disposti a pagare per l’informazione, abbonarsi a testate serie, premiare il lavoro giornalistico accurato anziché accontentarsi dei titoli clickbait gratuiti sui social media.
Possiamo anche prestare attenzione alla provenienza delle notizie che leggiamo. Chi possiede il giornale o il sito che stiamo consultando? Ci sono conflitti di interesse evidenti? L’informazione che stiamo ricevendo proviene da fonti indipendenti o da conglomerati controllati da oligarchi o governi?
A livello politico, possiamo chiedere ai nostri rappresentanti di approvare leggi che proteggano davvero la libertà di stampa: dalla depenalizzazione della diffamazione all’introduzione di sanzioni contro le querele temerarie, dal rafforzamento della trasparenza sulla proprietà dei media al finanziamento adeguato del servizio pubblico radiotelevisivo che ne garantisca l’indipendenza.
Non si tratta solo di difendere una professione o un settore economico. Si tratta di salvaguardare uno dei pilastri fondamentali della democrazia: il diritto di sapere, di essere informati, di conoscere la verità. Un diritto che, una volta perduto, è tremendamente difficile da riconquistare.
Ogni articolo che leggiamo, ogni abbonamento che sottoscriviamo, ogni volta che condividiamo un’inchiesta importante, ogni volta che ci rifiutiamo di credere acriticamente alle fake news, stiamo facendo una scelta. Stiamo decidendo che tipo di società vogliamo: una in cui l’informazione è libera, plurale e indipendente, o una in cui la verità è ciò che il potere decide che sia.
